Autocritica e speranza. Lettera aperta al popolo della destra

1. Questa autocritica non nasce dal desiderio di dare soddisfazione ai tanti censori che si sono manifestati dopo la crisi del centrodestra e la sconfitta di Roma. Troppo facile uscire da anfratti di pigrizia nostalgica, da astratte esercitazioni intellettuali, dall’atarassia dei “duri e puri” che non fanno più nulla da quando “hanno famiglia”, per sparare contro chi ha avuto in questi anni responsabilità politiche ed istituzionali. Facile confondere le idee, fare di tutta un’erba un fascio. Per quanto mi riguarda io vengo da cinque anni di Campidoglio, che, per la gravità delle emergenze affrontate e per la durezza degli attacchi subiti, non augurerei al mio peggior nemico. Mi sento reduce da una dura trincea e so di aver combattuto, bene o male, ma dal primo all’ultimo momento di quella esperienza. Mi sono assunto tutte le responsabilità della sconfitta, anche per conto di quelli che mi avevano lasciato solo, chiuso in un maledetto accerchiamento di diffamazione mediatica, attacchi politici e “fuoco amico”. Sono ben consapevole, ovviamente, degli errori commessi e della insufficiente comunicazione sulle cose fatte. Ma, nonostante questi cinque difficilissimi anni, alla fine so di aver lasciato Roma in condizioni molto migliori di come l’ho trovata. Ad ulteriore riprova guardate la voragine in cui, dopo appena sei mesi, sta sprofondando il mio successore Ignazio Marino. In realtà quello che mi fa veramente male è non ritrovare, al termine di questa lunga battaglia, una casa in cui fare ritorno, un Partito degno di questo nome, dove rendere conto, dove rigenerarsi, dove continuare a militare ed elaborare nuovi progetti. Alleanza Nazionale non c’è più, il Popolo della Libertà non c’è mai stato, Forza Italia e il Nuovo Centrodestra non mi rappresentano, nessuna realtà organizzata sembra voler continuare la nostra tradizione in modo ampio, sereno e coinvolgente, per essere la casa di tutti coloro che, in un modo o nell’altro, si sentono di destra e vogliono continuare ad impegnarsi per i valori nazionali e popolari.

2. Il punto è un altro: l’autocritica è la base della speranza. Perché soltanto individuando bene e in modo severo gli errori commessi, si può sperare di non commetterli più nel futuro. Dobbiamo liberare le nostre menti e il nostro spirito da troppe incrostazioni accumulate in questi anni, da abitudini sbagliate, da risentimenti, alibi e luoghi comuni. Non dobbiamo neppure “buttare il bambino con l’acqua 1 sporca”. Avviamo un nuovo percorso, senza però pensare di fare “tabula rasa” cancellando, insieme agli errori, anche quel poco o tanto di buono che è stato fin qui prodotto. Pensiamo a come eravamo ridotti all’inizio degli anni ’90, a come eravamo emarginati e lacerati alla fine della segreteria Rauti, per comprendere che questi venti anni non sono passati invano. L’unica vera differenza in negativo, è che allora – lo ripeto ancora una volta – avevamo una casa, che, per quanto marginale e ghettizzata,era comunque il luogo da cui ripartire.

3. Per comprendere bene la situazione, per non dire cose superficiali e scontate, dobbiamo partire da lontano, dobbiamo ripercorrere la storia di questi ultimi venti anni. Da quel 5 dicembre 1993 in cui Gianfranco Fini, sfiorando la vittoria con Francesco Rutelli, portò l’allora Movimento Sociale Italiano oltre il 30% a Roma e dimostrò, insieme a Silvio Berlusconi, che la destra poteva uscire dall’isolamento politico e diventare protagonista. Gli artefici di quell’incredibile risultato furono i quadri territoriali del Msi di Roma e gli esponenti di quella “destra sommersa” da sempre radicata nella società civile della Capitale. Queste diverse categorie di persone, una volta tanto alleate e non in conflitto tra loro, prima convinsero Fini a candidarsi e poi lo accompagnarono in una campagna elettorale che si rivelò un crescendo di incontri sorprendenti e trasversali. Fini veniva accolto come una nuova e grande speranza di cambiamento nelle borgate e nei salotti aristocratici, negli ambienti delusi dai vecchi partiti moderati della prima Repubblica come in aree sociali storicamente radicate a sinistra. Colpiva la nostra capacità di mettere insieme valori tradizionali ed istanze sociali, un’idea di autorità e di modernizzazione con la spinta alla partecipazione e al movimentismo. Era la prima manifestazione di quella che poi sarebbe stata definita la “destra sociale”, frutto maturo della “socialità” dell’Msi e della ritrovata – dopo decenni di incontrastata egemonia culturale marxista – capacità della destra di manifestarsi politicamente senza complessi di inferiorità.

4. Dopo questo risultato – abbinato a quello di Napoli ottenuto da Alessandra Mussolini e alle vittorie in tanti piccoli e medi comuni italiani – si apriva una prateria davanti a noi. La destra sociale e nazionale con un leader giovane e brillante, forte dell’assist del più importante imprenditore italiano, poteva veramente essere il motore del nuovo centrodestra, che si andava formando anche per effetto delle riforme elettorali maggioritarie promosse dal movimento referendario di Mario Segni. Ma le cose non andarono esattamente così: questa destra si lasciò sfuggire dalle mani il timone del cambiamento per consegnarlo alla nascente Forza Italia di Silvio Berlusconi. Perché?

5. Innanzitutto perché l’Msi arriva al suo appuntamento con la Storia già profondamente sfibrato da quindici anni (1977-1992) di feroci lotte correntizie, che da un lato avevano costretto tanti giovani e promettenti quadri dirigenti ad allontanarsi dal Movimento e dall’altro lato avevano fatto regredire il dibattito interno dal punto di vista culturale e programmatico. Il problema di superare le tare nostalgiche, i residui ideologici autoritari ed organicisti, gli atteggiamenti politici 2 aggressivi ed intolleranti, era già stato ampiamente posto nel Msi dall’inizio degli anni ’80. Il riformismo presidenzialista di Giorgio Almirante, le mozioni di Pino Rauti e di Beppe Niccolai, la Nuova Destra di Marco Tarchi, i Campi Hobbit e il movimentismo del Fronte della Gioventù, rappresentano una ricca e fertile stagione che, con dieci anni di anticipo, aveva già posto le basi dei cambiamenti che si realizzarono con la svolta di Fiuggi. Ma il durissimo scontro congressuale che si scatenò prima tra Almirante e Rauti e poi tra Rauti e Fini, dissipò in larga parte questo patrimonio, banalizzandolo in uno scontro tra slogan e fazioni, con la progressiva espulsione di ogni vera novità culturale e dei quadri politici meno disponibili a compromessi di potere. Quando, sotto la spinta di Pinuccio Tatarella, l’Msi affrontò la decisiva trasformazione verso Alleanza Nazionale, mancarono quindi le idee e gli uomini per evitare che questa svolta si svolgesse nel segno della omologazione culturale al pensiero dominante. In altri termini la destra per abbracciare, senza più alcuna riserva, i valori democratici e per portare fino in fondo il suo distacco dalla vicenda tragica del Fascismo, invece di avvalersi principalmente della cultura comunitaria e partecipativa propria alle sue radici più autentiche, si appoggiò alle espressioni alquanto logorate del conservatorismo liberale, del moderatismo cristiano-democratico e del perbenismo qualunquista. Il risultato non fu di una piena autenticità:certamente la svolta di Fiuggi si realizzò in modo netto e dirompente, ma più sul versante di un’abiura degli errori del passato, che su quello della affermazione di un nuovo e consapevole radicamento culturale e comunitario. I militanti e i dirigenti uscirono da Fiuggi più frastornati che rigenerati, convinti della necessità di portare il nuovo partito verso una cultura di governo, ma confusi sugli strumenti necessari per farlo in modo serio, coerente e dignitoso. Anche sulla necessità di aprire An alle nuove aggregazioni politiche e ad una piena democrazia interna, l’atteggiamento non fu lineare: quasi ovunque nella struttura partitica finirono per prevalere i vecchi quadri missini, mentre gli inserimenti degli esponenti politici provenienti da altre esperienze avvennero in modo estemporaneo e dirigista.

6. Per contenere e superare queste debolezze strutturali, Pinuccio Tatarella guida Fini e tutta la classe dirigente post-missina attraverso un geniale e spregiudicato pragmatismo. La sua celebre frase “la mia identità è vincere” rappresenta un salutare scossone rispetto ad un mondo giovanile e militante ancora troppo malato di ideologia, ma indica anche la linea evolutiva di un partito che trova sempre più il suo motore in una compulsiva e superficiale rincorsa del successo elettorale. Dal 1994 fino alla nascita del PdL, la storia politica di Alleanza Nazionale si caratterizza principalmente in questo modo, ma dopo la morte di Tatarella questa rincorsa diviene veramente un arrancare senza bussola e senza strategia. Ecco la radice della nostra debolezza negoziale nei confronti di Silvio Berlusconi e della Lega di Bossi: pur di raggiungere l’alleanza con queste forze si mettono in gioco (con compromessi instabili e perdenti)valori fondanti, come l’Unità nazionale piegata agli eccessi del federalismo leghista, bacini elettorali decisivi, come quello meridionale compromesso dal prevalere dell’ “asse del Nord”, i principi dell’economia sociale di mercato esposti alle pulsioni liberiste. L’ultimo atto di questa compulsione è stata la fuga in avanti che ha portato alla “fusione a freddo” tra Forza Italia ed An che fece nascere nel 2008 il Popolo della Libertà. Ma in politica non è sufficiente vincere, anzi in certe condizioni è persino controproducente, come dimostra quello che è successo alla destra dopo il 2008.

7. È in questo quadro che Silvio Berlusconi e Forza Italia prendono saldamente lo scettro del comando nel centrodestra della seconda Repubblica. Quando si dice che Berlusconi ha sdoganato Fini e la destra, si dice una mezza verità. Scegliendo Fini nel ballottaggio per le comunali romane del 1993, Berlusconi sdogana noi ma qualifica se stesso. Le novità vere e vincenti del centrodestra berlusconiano rispetto al pentapartito della prima Repubblica sono due: l’aver offerto una bandiera al “Popolo delle partite Iva”, spingendo all’impegno politico il blocco sociale emergente dei piccoli e piccolissimi imprenditori, e l’aver dato cittadinanza politica alle idee della destra dopo la lunga emarginazione operata dall’ “arco costituzionale”. Ma proprio per questo non stava scritto da nessuna parte che la forza egemone del centrodestra dovesse essere Forza Italia: nel 1994 FI prende il 21% e AN il 13,5%, nel 1996 la forbice si chiude ancora di più con FI che scende al 20,6% e AN che sale al 15,7%. La realtà è che proprio dopo la sconfitta del centrodestra nel 1996 – la cui responsabilità viene attribuita a Fini per aver impedito la formazione del Governo Maccanico (primo tentativo di “governo di larghe intese” nella seconda Repubblica) – Alleanza Nazionale comincia a ripiegarsi su se stessa, squilibrando sempre più la propria sintesi ideologica in senso liberal-liberista, archiviando la formula della “destra sociale” (seminario con i “professori liberisti” di San Martino al Cimino nel 1996) e perdendo così buona parte della propria originalità rispetto a Forza Italia. In termini di messaggio politico il partito di Fini non solo tende a diventare una fotocopia sbiadita del partito di Berlusconi, ma in nome della “responsabilità istituzionale” sente la tentazione di scavalcare al centro l’alleato forzista. La progressione di An è abbastanza coerente: prima la collaborazione con Massimo D’Alema nella Commissione bicamerale per le riforme costituzionali (1997), poi la Conferenza programmatica di Verona (1998) che mette insieme un’impostazione liberal-democratica con una visione bipartisan del riformismo istituzionale, infine le liste comuni con Mario Segni nelle europee del 1999. L’urto con la realtà è molto duro: Silvio Berlusconi prima si presenta a V erona con il “Libro nero del comunismo” dello storico Stéphane Courtois, rubando a Fini l’applauso più convinto della platea dei quadri aennini, poi fa saltare, sempre in nome dell’antagonismo alla sinistra, la Commissione D’Alema; gli elettori, dal canto loro, si incaricano di bocciare sonoramente le liste di An con l’ “elefantino”, il simbolo del Partito repubblicano americano adottato da Mario Segni.

8. C’è un ultimo fronte su cui Alleanza Nazionale non riesce a superare la prova: quello della vita interna di partito. An non sarà mai un partito totalmente carismatico come la Forza Italia di Silvio Berlusconi, ma non scommette fino in fondo sulla carta della partecipazione e della democrazia interna. Tutte le scelte organizzative sono segnate da un forte dirigismo, i congressi di partito sono rari e male organizzati, il dissenso interno viene bollato come “correntismo”, la leadership di Fini si impone in modo mediatico senza radici strutturali. Solo la “destra sociale” si permette il lusso di esprimere forme periodiche di opposizione e di resistenza alle decisioni del Presidente: contrasta a Fiuggi il tentativo di far scomparire dal documento finale i riferimenti alla socialità ereditata dal Msi; si contrappone esplicitamente alla svolta liberista di San Martino al Cimino e di Verona; difende il Mezzogiorno dalle derive nordiste imposte dall’alleanza con la Lega. Queste contrapposizioni assumono la forma più di una guerriglia “temporeggiatrice” che quella di uno scontro aperto e frontale, perché nel Partito vige sempre un forte unanimismo attorno alla leadership di Fini, garantito non solo dai “colonnelli” ma anche da gran parte dei quadri intermedi e dalla dirigenza giovanile, alla ricerca di legittimazioni generazionali. Nelle assemblee territoriali come in quelle giovanili si demonizza la dialettica interna come “correntismo” e si invoca l’intervento del Presidente Fini per stroncare le “divisioni interne”.

Nella vita politica italiana tutta segnata, particolarmente nel centrodestra, dal leaderismo, con un elettorato pronto a schierarsi con il Capo più che con l’apparato, l’unica strada per cercare di condizionare le scelte del Partito è sembrata quella di assumere un atteggiamento dialettico “morbido” e disponibile. Inutile scaricare solo sui “colonnelli” la responsabilità di questa situazione: a subire il “fascino del Capo”erano più la base del Partito e l’elettorato che non il vertice dell’Ufficio politico.

9. Questo equilibrio precario è andato avanti fino a quando Gianfranco Fini non ha cominciato a rompere il recinto: fortemente influenzato dal suo impegno nella Costituente europea e dal suo ruolo di Ministro degli esteri, il Presidente di AN accentua dal 2004 in poi il contenuto liberal delle sue esternazioni, fino alla clamorosa presa di posizione a favore del referendum radicale contro la legge sulla fecondazione assistita (2005). A quel punto noi della “destra sociale” usciamo allo scoperto con una violenta presa di posizione che impone al Presidente un netto cambio di rotta. Ma questo non basta a bloccare la deriva radicaleggiante e anticlericale di Gianfranco Fini sulle coppie omosessuali, sul voto agli immigrati, sui valori della vita e della famiglia. E’ facile individuare la radice culturale di questi atteggiamenti: la convinzione di dover difendere i diritti della persona umana in modo astratto, prescindendo dall’identità, dalla tradizione e dal radicamento popolare. Una destra liberal e laicista, protesa ad una emancipazione individualista, che in Italia non ha mai messo radici né trovato spazio elettorale. Berlusconi segue una parabola opposta: superando l’idea iniziale del “partito liberale di massa” accentua nel corso del tempo il carattere popolare e conservatore del suo messaggio, fino ad apparire “più di destra” dello stesso Fini. Così, quando si giunge ai passaggi cruciali più recenti, Alleanza Nazionale si presenta particolarmente debole al confronto di Forza Italia. Da “fotocopia sbiadita” alla ricerca di legittimazioni liberal- democratiche e istituzionali, An si presenta come un Partito più ”centrista” e moderato di Forza Italia, perdendo identità e forza elettorale fino al punto da temere la concorrenza de “La Destra” di Francesco Storace. E’ in questa chiave che An confluisce sbrigativamente nel PdL: più per evitare una sfida elettorale in campo aperto che per costruire consapevolmente il partito unico del centro-destra. E poi, quando Fini si ribella alla forza egemone di Berlusconi, mettendone in discussione i comportamenti più anomali, non viene seguito dalla maggioranza dei parlamentari di An, non solo per ragioni di opportunismo, ma per effetto del distacco che, dal 2005 al 2010, si era prodotto tra la sue prese di posizione e il comune sentire dei quadri dirigenti e dell’elettorato provenienti da destra.

Nel momento della sua uscita dal PdL, Gianfranco Fini non si presenta come un leader di destra che recupera la sua identità e la sua autonomia, ma come una personaggio in fuga dal centrodestra e dalla sua storica collocazione politica. Il vecchio Presidente di An non ha tutte le colpe di questo strappo, anzi per molti versi viene “costretto” ad uscire, ma la sua parabola appare talmente contraddittoria da risultare incomprensibile per il mondo del centrodestra. Una parabola che giunge alle sue estreme conseguenze con l’alleanza centrista, prima con Casini e Rutelli e poi con Mario Monti: Futuro e Libertà completa il tragitto finiano dalla destra al centro con gli esiti elettorali che conosciamo.

10. Nonostante tutti i difetti impietosamente denunciati fino a questo punto, l’assenza di Alleanza Nazionale dal 2009 fino ad oggi si è fatta clamorosamente sentire. La scomparsa del Partito della destra e poi, dopo la fuoriuscita di Fini, lo schianto di questa area politica all’interno del PdL, hanno determinato un oggettivo peggioramento delle performance politiche del centrodestra. Si accentua la deriva federalista a danno del valore dell’unità nazionale, le ragioni del Mezzogiorno perdono peso e rappresentanza politica, saltano gli argini rispetto a comportamenti personali non accettabili, si indebolisce il senso delle istituzioni a fronte delle derive populiste e demagogiche, peggiora il livello delle candidature negli enti locali. Dopo il distacco di Fini dal PdL, come Sindaco di Roma ho constatato di aver perso buona parte del mio potere negoziale, mentre era chiaro fin dall’inizio che non erano in molti nel centrodestra ad essere pronti a difendere questo ruolo istituzionale di fronte agli attacchi della sinistra.

Anche i tentativi di rendere più democratica la vita interna del PdL e di allargare il perimetro del centrodestra cadono nel vuoto: le primarie invocate da Angelino Alfano e Giorgia Meloni per scegliere il candidato premier vengono sbrigativamente archiviate, come ogni ipotesi, più o meno velleitaria, di trovare nuovi alleati politici per il nostro schieramento. Insomma, con tutti i suoi problemi, nonostante derive negative di lungo periodo, Alleanza Nazionale ha rappresentato un importante valore aggiunto all’interno del centrodestra. Ma, cosa per noi ancora più grave, questa scomparsa organizzativa ha determinato anche un vuoto politico e culturale incolmabile per la destra italiana. L’idea di creare un partito unico del centrodestra non era in sé sbagliata, anzi ha radici molto antiche perché il primo a parlare di un “partito-polo” fu Marcello Veneziani sulle colonne de ”L’Italia settimanale”. Il progetto era quello di saldare il centro con la destra – come già avvenuto in tutto il resto d’Europa – per fronteggiare la sinistra con uno schieramento compatto e per avere una maggiore unità nel programma di governo.

Il sogno era quello di una destra forte e organizzata capace di egemonizzare il partito unico del centrodestra. La realtà è stata opposta: l’area politica proveniente da An è stata progressivamente risucchiata e resa subalterna dagli uomini di Forza Italia. In ogni caso, un grande partito capace di riunire tutte le famiglie del centrodestra, non poteva sopravvivere senza chiare regole interne, senza rispetto delle minoranze e senza una forte dose di democrazia.

Tutto il contrario di quello che poi è stato il Popolo della Libertà.

11. Giungiamo così ai giorni nostri. Dopo la sconfitta a Roma e in tutti comuni dove si è votato a maggio, Silvio Berlusconi reagisce all’evidente crisi del Popolo della Libertà andando in una direzione già molte volte preannunciata: il ritorno di Forza Italia. Si tratta della ratifica finale di un percorso di annullamento dell’eredità di An all’interno del PdL: dopo la scissione di Fini e quella più recente di Fratelli d’Italia, gli spazi nelle liste elettorali per i candidati provenienti da destra si sono fortemente ristretti e nessuno degli esponenti ex-An ha mantenuto posizioni apicali all’interno del Partito. Infine la scissione tra Berlusconi ed Alfano, accentua la caratterizzazione politica dei due nuovi partiti, a tutto danno delle tradizionali anime della destra. Forza Italia interpreta il ruolo di Movimento populista a base individualista e liberal-liberista, il suo radicamento nel blocco sociale dei lavoratori autonomi e dei piccoli e medi imprenditori, fortemente antagonista con le scelte dell’establishment e i costi finanziari di uno Stato assistenzialista e burocratico. E’ una forza politica che si può superficialmente catalogare come “di destra”, ma con una interpretazione di questo termine molto distante dalla tradizione politica italiana. Mancano – tendenzialmente – il senso dello Stato e la centralità del valore della Nazione, una cultura identitaria e comunitaria che contrasti le derive individualiste di una società ormai allo stato “molecolare”, il radicamento nella dottrina sociale della Chiesa e nell’economia sociale di mercato, la difesa degli strati popolari e del ceto medio impoverito dalle sperequazioni del capitalismo globale. Il “Nuovo Centrodestra” si presenta invece come una forza marcatamente legata al popolarismo europeo, democratico-cristiana, protesa verso un moderatismo centrista. Molto attento ai riconoscimenti istituzionali e all’accreditamento europeo, l’Ncd non può non mettere anch’esso in secondo piano la tematica dell’interesse nazionale e del radicamento sociale, identitario e comunitario. Ma l’aspetto più problematico di questo partito è il suo essere collocato sul terreno di confine tra centro e centrodestra, con l’aggravante della partecipazione ad una maggioranza di governo con il centrosinistra. E’ il luogo più scomodo per affrontare una polemica con il leader fondatore, Silvio Berlusconi, oggi alle prese con le conseguenze inaccettabili di una ventennale persecuzione giudiziaria. In queste condizioni riusciranno i vertici del Ncd ad evitare di compiere una parabola simile a quella di Gianfranco Fini? In ogni caso, qualunque sarà lo sviluppo di queste due nuove formazioni politiche, appare chiaro che in entrambe non ci sarà molto spazio per una destra nazionale, sociale ed identitaria.

12. Il centrodestra italiano, quindi, si ritrova senza un vero e proprio partito di destra, mentre l’eredità di Alleanza Nazionale è dispersa in mille rivoli. Futuro e Libertà in parte è stato assorbito nel centro montiano e in altra parte è ritornato verso destra alla ricerca di una nuova casa. Francesco Storace ha superato l’esperienza de “La Destra” per tentare una confederazione tra più soggetti che vogliono ripresentare tout court il simbolo di An, anche se il linguaggio di questo gruppo sembra essere più quello di una “rifondazione missina” indifferente al significato politico cruciale della svolta di Fiuggi. Fratelli d’Italia ha raccolto l’unica rappresentanza parlamentare autonoma, coraggiosamente ottenuta all’ultimo momento nelle elezioni politiche di febbraio, ma sembra non volersi aprire oltre il suo steccato originario. Nonostante l’esperimento dell’Officina per l’Italia che ha prodotto un significativo documento politico, permane una forte resistenza ad aprirsi ai diversi ambienti umani che provengono da Alleanza Nazionale e a fasce generazionali distanti da quella di Giorgia Meloni.

Una buona parte dei reduci di An rimane fuori o ai margini di questi schieramenti, mentre molti di coloro che mantengono cariche istituzionali rimangono in una posizione di attesa. Cosa più importante: una quota considerevole del vecchio elettorato di destra si è rifugiato nel non voto o nel voto di protesta grillino, facendo mancare punti percentuali importanti a tutto lo schieramento di centrodestra. L’unico depositario ufficiale e legale dell’eredità di Alleanza Nazionale, l’omonima Fondazione, fino ad ora è rimasto immobile, anche per risolvere non pochi contenziosi nelle aule dei tribunali. Manca quindi un’iniziativa veramente unitaria capace se non di raccogliere, almeno di offrire una possibilità di riunificazione, a tutti i frammenti di questa diaspora. L’obiettivo non deve essere quello di creare una “associazione di reduci”, ma di dare un segnale chiaro immediatamente percepibile da tutti: di fronte alla archiviazione definitiva del Popolo della Libertà come partito unico del centrodestra, si sta ricostruendo un partito che dia casa politica a chi si sente di destra. Per fare questo non è necessario isolare la rappresentanza della destra rispetto a un più vasto radicamento nell’area di centrodestra, perché questo messaggio può essere raccolto da tutte le correnti del centrodestra che intendono resistere sia alle derive centriste che a quelle iper-liberiste.

13. Questa assenza della destra in Italia appare tanto più inaccettabile se allarghiamo il nostro sguardo su tutta l’Europa, dove il “populismo identitario” è tornato a soffiare come un vento forte e crescente. Non solo: sono via via falliti tutti i tentativi di incanalare questa spinta in schieramenti politici di centrodestra dominati da una sintesi prevalentemente tecnocratica e liberista. Il primo caso è quello di José Maria Aznar, travolto nel 2004 non solo dall’attentato nella metropolitana di Madrid ma dalla maggiore carica movimentista e passionale del socialismo di José Luis Zapatero. Poi è la volta di Nicolas Sarkozy, eletto Presidente della Repubblica francese anche sotto la spinta dei clamorosi successi del Front National di Le Pen padre, che nel 2002 era addirittura riuscito ad arrivare al ballottaggio delle presidenziali con Jacques Chirac, escludendo il candidato di sinistra. Anche Sarkozy, nonostante il marcato carattere populista del suo successo, durante il mandato piega verso la tecnocrazia di Bruxelles e l’alleanza con la Merkel e viene punito dall’elettorato, che preferisce scegliere il grigio candidato socialista François Hollande. Infine David Cameron riporta i Conservatori al governo del Regno Unito con inedite idee sull’ambientalismo e la sussidiarietà sociale – the Big society – ma galleggia faticosamente negli anni della crisi economica globale e spera oggi di contenere l’avanzata degli euroscettici lanciando per il 2017 un referendum sull’opportunità di rimanere nell’Unione Europea. Discorso a parte vale ovviamente per Angela Merkel: vista da lontano appare il campione assoluto del rigorismo monetarista e liberista, ma in realtà tutti si stanno accorgendo che questo schermo ideologico copre un progetto di egemonia economica tedesca che sta facendo tremare tutta l’Europa (il che non ha impedito al partito anti-euro tedesco di sfiorare il 5% alle ultime elezioni). Insomma la crisi economica globale, l’impoverimento che sta colpendo tutti i popoli europei salvo quello tedesco, ripropongono il tema della sovranità, dell’interesse e dell’identità nazionale come risposta alle contraddizioni della globalizzazione e agli effetti recessivi dell’Euro e dei Trattati europei. Gli schieramenti di centrodestra in bilico tra tecnocrazia liberista, europeismo politically correct e conservatorismo politico, non riescono ad imbrigliare la forza del “populismo identitario” che oggi ha la sua punta di diamante nel Front National di Marine Le Pen, diventato con il 35% il primo partito francese. In realtà l’unica forza politica europea che avrebbe le caratteristiche ideologiche per scongiurare le derive xenofobe e nazionaliste, è proprio la destra sociale italiana, modello che sembra essere il possibile punto di approdo della costante evoluzione del Front National, che, ricordiamolo, in Francia sta sempre più aggregando nei ceti operai e popolari. Infatti il bisogno di identità e di appartenenza non si risolve in una chiusura dentro i propri confini e in un odio verso il diverso, solo se viene inquadrato all’interno di una più vasta cultura comunitaria e identitaria,rispettosa dei valori universali della persona umana. In termini ancora più schematici la sfida è quella di liberare i valori nazionali dal condizionamento della tecnocrazia liberista, per legarli con i valori popolari fondati sulla Dottrina sociale della Chiesa. Questo è il compito di una rinnovata destra italiana che potrebbe perfino lanciare un messaggio politico e culturale importante per tutto il nostro continente: quello di essere una grande alleanza nazionale e popolare, capace di superare i limiti del popolarismo europeo e del populismo identitario. Tutto questo ha una ricaduta in termini sociologici: il movimento di cui abbiamo bisogno – e anche questo è un patrimonio della nostra esperienza politica – deve rifiutare il paternalismo e il dirigismo per scommettere sulla partecipazione popolare, sul movimentismo e sulla comunicazione sociale. Comprendete l’ultima beffa? La destra italiana rischia di scomparire proprio nel momento in cui potrebbe interpretare nel modo migliore lo “spirito dei tempi”, dando un esito positivo al forte vento identitario che soffia in tutta Europa.

14. Prima di tirare le conclusioni, ritorniamo con i piedi per terra per ricordare gli insegnamenti che vengono dalla sconfitta romana. Al di là di insufficienze e errori di carattere esclusivamente personale, tre sono le indicazioni politiche da raccogliere in questa esperienza. Innanzitutto evitare l’errore di rendere prioritario l’impegno nelle istituzioni rispetto a quello nei partiti e nei movimenti. Se si ricopre un ruolo istituzionale senza avere le spalle saldamente coperte da un’organizzazione politica, non solo non si hanno reali prospettive alla scadenza del mandato ma diventa anche difficile mantenere il consenso attorno alla carica elettiva che si ricopre. Inutile illudersi di generare consenso o di radicarsi nella società civile soltanto in base alla propria azione di governo: se dietro a quest’azione non c’è un “esercito militante” si produce un isolamento che rimane velato soltanto dalle corti di clientes attratti dagli interessi di potere. È successo a Gianfranco Fini come Presidente della Camera, rischia di succedere ad Alfano ed ai suoi Ministri nell’esperienza del Nuovo Centrodestra, è stata la mia esperienza amministrando Roma senza riuscire a rimediare alle debolezze organizzative del PdL. Probabilmente in situazioni simili è meglio scendere da cavallo e tornare in mezzo alla gente e ai militanti per rilanciare l’aggregazione di coloro che ci credono veramente. Secondo insegnamento, tipico di chi ha ricoperto una carica da Sindaco: non bisogna illudersi che il rinnovamento dell’Italia possa partire dal basso, dalle esperienze locali che correggono le distorsioni di livello nazionale. Lo sanno tutti i Sindaci che oggi devono affrontare il compito impossibile di amministrare le loro città senza le riforme strutturali ed il sostegno economico del Governo centrale; lo sperimentano anche i Presidenti di Regione divorati dalla spesa sanitaria e strozzati dai vincoli finanziari imposti dal Ministero dell’Economia; l’hanno subito sulla loro pelle Francesco Rutelli e Walter Veltroni che non sono riusciti a diventare premier sulla spinta delle loro esperienze amministrative romane. Sembra fare eccezione Matteo Renzi, oggi in fase di passaggio dal Comune di Firenze alla Segreteria del Pd, ma in realtà non è certo l’esperienza amministrativa ad essere il motore di questa ascesa. Renzi è il Sindaco quasi mediocre di una città poco più grande di uno dei quindici municipi romani, mentre si è fatto conoscere in tutta Italia come il “rottamatore” della Leopolda e il coraggioso sfidante dell’apparato comunista alle primarie del Pd. Terzo e ultimo monito: le comunità militanti non possono diventare dei clan protesi alla propria autoaffermazione. La vera comunità si qualifica per la propria capacità di donare più di quanto prende dalla realtà sociale in cui è inserita. Questo è un principio che vale per tutte le comunità che non si vogliono trasformare in lobbies, sette, o tribù. Per le famiglie, che si devono sottrarre alla tentazione del familismo amorale, per i gruppi intermedi che non devono cedere all’egoismo corporativo, per le comunità locali che non devono ammalarsi della sindrome Nimby (non nel mio giardino). Vale in particolare per le comunità militanti che non devono anteporre le ambizioni dei propri membri rispetto agli obiettivi generali del movimento o del partito in cui sono inserite. Su questo bisogna essere duri e intransigenti, se si vuole evitare la degenerazione della comunità e il fallimento del progetto politico.

Conclusioni.

Dobbiamo ricostruire la nostra casa, il Partito della Nazione e del popolo italiano, la nuova Alleanza nazionale e popolare che raccolga tutto (e non solo) il popolo della destra. La gente di destra non deve più essere ospite sgradita di altri partiti, “figli di un Dio minore” rispetto alle altre famiglie del centrodestra. Dobbiamo farlo per tornare a rendere vincente il nostro schieramento,interpretando in chiave positiva le reazioni alla globalizzazione che in tutta Europa stanno dando forza ai valori della comunità e dell’identità.

La Nazione è il punto di riferimento principale per unire le diverse anime della destra e le aree a noi più affini nel centrodestra. L’Italia non è un’astrazione retorica o un sentimento tricolore, non è solo l’unità nazionale fondata sul patto costituzionale (patriottismo costituzionale), come la concepiscono i nostri ultimi Presidenti della Repubblica. Bisogna spiegare agli italiani a cosa serve la Nazione: serve a uscire dal declino morale e dalla crisi economica e sociale, ridando sovranità democratica al nostro popolo, difendendo l’interesse nazionale in Europa e nel Mediterraneo, investendo su un modello di sviluppo capace di valorizzare le nostre competenze distintive nella globalizzazione.

Dobbiamo far rinascere lo Stato-Nazione, democratico e sovrano,senza appesantimenti statalisti ed assistenzialisti, capace di spezzare le gambe ai poteri forti, alle mafie, alla criminalità di ogni genere, alle lobbies degli interessi illegittimi, agli eccessi del federalismo e attrezzato per rimettere ordine in un sistema istituzionale dove esistono troppi conflitti di potere e troppe burocrazie. Uno Stato sobrio ed efficiente, che sappia finalmente tagliare la spesa pubblica per liberare le famiglie e le imprese dall’oppressione fiscale. Si può essere cittadini del nostro Stato solo se si dimostra ogni giorno di amare e rispettare l’Italia, la sua identità, la sua cultura e le sue leggi: questo vale per chi è nato italiano e per chi vuole diventarlo venendo da un altro paese. Questa è l’unica strada per rimettere le Istituzioni al servizio del Popolo.

Rilanciamo il significato politico e culturale della destra sociale: Alleanza Nazionale ha cominciato a morire quando si è allontanata da questa linea. Nel concetto di “destra sociale” c’è la centralità della cultura comunitaria e identitaria, la capacità di mettere insieme i valori tradizionali con le istanze sociali, un’idea di autorità e di modernizzazione con la spinta alla partecipazione e al movimentismo. La destra sociale è la strada per aprire il nostro mondo alla Dottrina sociale della Chiesa, al modello dell’economia sociale di mercato e al popolarismo europeo; è lo strumento ideologico per combattere ogni forma di intolleranza xenofoba e di chiusura nazionalista. Andiamo verso un nuovo umanesimo identitario per liberare le persone, le comunità e i popoli da ogni forma di omologazione, di sfruttamento, di dominio della finanza e della tecnocrazia.

Dalla svolta di Fiuggi non si torna indietro, ogni forma di nostalgismo e di indulgenza verso idee totalitarie ed intolleranti è un veleno che distrugge il nostro progetto. Il congresso di Fiuggi, che ha fatto nascere Alleanza Nazionale, pur con tutti i suoi limiti rappresenta uno spartiacque per la destra italiana. Chi di noi ha vissuto la militanza nel Msi deve essere giustamente orgoglioso del suo impegno giovanile e della generosità di un mondo che ha pagato un prezzo di sangue per non rinunciare a difendere il Tricolore anche negli anni più “rossi” della storia della Repubblica. Non possiamo però dimenticare che vivevamo in un ghetto chiuso non solo dall’odio dei nostri avversari ma anche dalla nostra incapacità di superare definitivamente i retaggi del passato. Per questo, proprio per non dimenticare chi ha pagato con la vita i propri ideali, costruiamo una memoria condivisa con tutto il popolo italiano basata sui valori irrinunciabili della Sovranità nazionale, della Libertà e della Democrazia.

Dobbiamo creare un partito nuovo e aperto, ma che abbia struttura e radicamento, senza essere preda di leadership personalistiche e mediatiche. I leader sono importanti ma non debbono soffocare la struttura organizzativa che li esprime. Contano più lo spirito di squadra, il gruppo dirigente, le comunità militanti e il radicamento popolare, delle singole persone anche quando diventano leader o assumono ruoli istituzionali. L’impersonalità attiva di chi ricopre incarichi di potere, l’insegnamento di sobrietà e di rigore che ci viene dalle “magistrature” dell’antica Repubblica romana, ci sia d’esempio. Applichiamo anche al nostro partito politico il principio di sussidiarietà, aprendo l’organizzazione al territorio e alla società civile, e il principio della democrazia diretta, utilizzando il metodo delle primarie per scegliere ogni carica apicale e ogni candidatura.

Abbiamo una storia da ricostruire, un percorso da riprendere, una speranza da trasmettere verso il futuro.

Gianni Alemanno

Roma, il 4 dicembre 2013.

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